“Molti punti oscuri”. La morte di Wilma Montesi tra cronaca nera e stereotipi culturali

Roma, 1953. Wilma Montesi è una giovane donna di 21 anni che vive in un palazzone di via Tagliamento n. 76 (scala 4, interno 9), in angolo con via Chiana, insieme ai genitori, Rodolfo e Maria Petti, alla sorella minore Wanda, al fratello diciassettenne Sergio e ai nonni materni. Conosciuta nel quartiere come una giovane seria e onesta, ha una bellezza appariscente ed è in procinto di sposarsi con Angelo Giuliani, poliziotto di stanza a Potenza. I genitori la descrivono assai timida e pudica, del tutto incapace di muoversi da sola in città e poco pratica di mezzi pubblici.

Alle ore 17 circa di giovedì 9 aprile 1953, Wilma esce di casa, mentre la madre e la sorella sono al cinema. La portinaia dello stabile riferisce che la giovane è accuratamente truccata e indossa un tre quarti di tweed e scarpe con il tacco e ha con sé un borsa molto elegante. I gioielli saranno in seguito ritrovati sul comò della sua stanza.

Alle 23, i familiari denunciano la sua scomparsa: non hanno più notizie della giovane da alcune ore. Nel frattempo, prendono in considerazione l’ipotesi che Wilma possa essersi uccisa o che sia scappata di casa per ragioni non del tutto chiare.

Il corpo senza vita di Wilma viene rinvenuto alle 7.30 del successivo 11 aprile, sulla spiaggia di Torvaianica, località balneare sul litorale romano, tra Ostia e Marina di Ardea. Dopo un primo esame, eseguito alle ore 13 dello stesso giorno, il medico condotto di Pratica di Mare conclude che la morte si può far risalire alle 11,30 circa di venerdì 10 aprile. Lo stesso medico afferma, poi, in maniera piuttosto evasiva, che il decesso potrebbe essersi verificato per asfissia da annegamento, pur non presentandone la vittima, in maniera evidente, i segni caratteristici.

Il cadavere è privo di gonna, scarpe, calze e reggicalze, indumento, quest’ultimo, di raso nero, alto 20 cm, chiuso su un lato da cinque stretti gancetti e dunque non facile da sfilare.

Dopo la scomparsa di Wilma e prima del ritrovamento del suo corpo, il giovane fidanzato della ragazza, Angelo Giuliani, raggiunge a Roma la famiglia Montesi, a seguito di due telegrammi inviati dal futuro suocero. Il primo: “Wilma scappata di casa, non conosco i motivi”; il secondo: “Prevedesi suicidio – stai calmo – vieni subito”.

Lunedì 13 aprile, la famiglia Montesi è all’obitorio. A quanto risulta, la madre singhiozza: “Me l’hanno ammazzata!”. Titola L’Unità: “I genitori dell’annegata di Torvaianica affermano: nostra figlia è stata uccisa!”.

Il pomeriggio dello stesso 13 aprile si presenta a casa Montesi Rosa Passatelli, sui trentacinque anni, piuttosto vistosa, che afferma di essere un’impiegata del ministero della Difesa e – in base alle descrizioni di Wilma lette sui giornali – di aver visto la giovane il 9 aprile salire, dalla stazione della Piramide, sul treno delle 17,30 per Ostia, su quale viaggiava anche lei. A questo punto, la sorella minore, Wanda, sembra ricordarsi che Wilma fosse sofferente di un eczema al piede e che, dopo essere ricorsa inutilmente ad applicazioni di tintura di iodio, avesse manifestato l’intenzione di recarsi al mare a fare un pediluvio. Colta da malore sulla spiaggia di Ostia, la ragazza potrebbe dunque essere annegata e il suo corpo essere stato trasportato dalla corrente per circa quindici chilometri, fino a Torvaianica. Dopo il ritrovamento del cadavere, il guardiano di una vicina tenuta aveva riferito agli investigatori che la sera precedente, al tramonto, un’Alfa 1900 si era fermata vicino alla spiaggia. Dentro c’era una coppia, la donna avrebbe potuto essere la Montesi, l’uomo gli era sembrato il principe Maurizio d’Assia, nipote dell’ultimo re d’Italia, che abitava nei dintorni.

Ma gli inquirenti – che già scartano l’ipotesi del suicidio perché Wilma, apparentemente, risulta essere stata una ragazza felice, specie in quel periodo in cui era intenta a mettere a punto il corredo per il prossimo matrimonio – mostrano subito di preferire l’ipotesi del pediluvio conclusosi con uno sfortunato, involontario annegamento, sufficiente a spiegare e chiudere la vicenda. Ricostruzione, questa, che parte della stampa tende fin da subito a ritenere semplicistica, auspicando una riapertura dell’inchiesta: Paese Sera titola: “La Polizia ha scelto la versione della disgrazia. Molti punti oscuri”.

Il giorno del funerale di Wilma, la famiglia riceve una lettera anonima, in cui lo sconosciuto mittente afferma che la ragazza non sarebbe morta a seguito di una disgrazia, ma che sarebbe invece stata uccisa da uno spasimante che non intendeva accettare il suo matrimonio con un altro uomo. Nessuno, però, presta alcuna attenzione al messaggio. Benché Wilma fosse considerata da tutti un esempio di rettitudine, non mancano le illazioni, che peraltro si scontrano con quanto gli investigatori riescono ad acclarare circa l’indole e le abitudini della giovane: “Il carattere docile, riservato, leale, il temperamento buono e sincero, la onestà e la rettitudine della vita della Wilma escludono nella maniera più assoluta relazioni sentimentali con un altro uomo, escludono che potesse accettarne la compagnia e che di ciò potesse mantenere il segreto col padre, con la madre e con la sorella, verso la quale la sua condotta è stata sempre di sincerità e lealtà ammirevoli”[1].

Il 4 maggio 1953, a meno di un mese dalla scomparsa della Montesi, il quotidiano napoletano Roma scrive che Wilma sarebbe stata vista, una decina di giorni prima del 9 aprile, nei pressi di Torvaianica in compagnia del “figlio di una nota personalità politica governativa.”

Il 5 maggio il settimanale satirico Il merlo giallo pubblica una vignetta che raffigura un piccione viaggiatore che tiene un reggicalze nel becco. La didascalia resta, per il momento, sibillina: “Dopo tutto le note personalità cui allude il ‘Roma’ non sono poi tante e non possono nemmeno sparire senza lasciare tracce come i piccioni viaggiatori.”

Dopo l’estate, in maniera sempre più esplicita e sistematica, alcuni giornali premono perché si riapra il caso Montesi, approfondendo e risolvendo le incongruenze evidenziatesi nel corso delle frettolose indagini effettuate. Tra i giornalisti, comincia a serpeggiare il sospetto che nella vicenda possa essere coinvolto Piero Piccioni, in arte Piero Morgan, giovane musicista jazz figlio dell’onorevole democristiano Attilio Piccioni (da qui l’allusione del Merlo giallo).

In quel periodo, la politica italiana conosce una delle sue ricorrenti crisi. Il 28 luglio, ad appena un mese da suo insediamento, cade l’ottavo, e ultimo, governo presieduto da De Gasperi. Il più accreditato successore del “presidente della ricostruzione” appare proprio Attilio Piccioni, 60 anni, definito da un giornale dell’epoca “l’uomo politico più abile e sottile della Dc […] che gode di maggiori probabilità di preservare il suo partito da ‘terremoti sotterranei’, che potrebbero comprometterne la solidità e l’integrità”. I “terremoti sotterranei” cui allude l’articolo ricomprenderebbero, tra l’altro, la nuova generazione democristiana, proveniente dalla Fuci e dall’Università Cattolica, che si apprestava ad allontanare De Gasperi dalla guida del partito, il cui esponente di maggior spicco era allora Amintore Fanfani. A ferragosto, il presidente della Repubblica, Luigi Einaudi, attesa l’inesistenza di una solida maggioranza parlamentare, incarica Giuseppe Pella di costituire quello che si rivelerà essere il primo esempio di “governo di transizione”.

Il 16 ottobre 1953, esordisce in edicola il settimanale scandalistico Attualità, diretto dal ventitreenne Silvano Muto. Il primo numero pubblica l’asserita “Verità sulla morte di Wilma Montesi”, muovendo aspre critiche alle indagini svolte sul caso dagli inquirenti, considerate affrettate ed esclusivamente finalizzate a pervenire a una rapida archiviazione. Secondo Muto, la ragazza rinvenuta annegata, in sottoveste, priva di calze e reggicalze, senza alcun segno di violenza e deceduta, come assicuravano i periti, ventiquattro ore dopo essere uscita di casa, era morta invece durante un festino a base di sesso e droga, nella tenuta di Ugo Montagna, marchese di San Bartolomeo, sita in Capocotta, tra Castel Porziano e Torvaianica, frequentata da politici, alti ufficiali, nobiluomini, etc. Colta da malore per eccessivo consumo di stupefacenti, la giovane sarebbe stata condotta, ancora viva, sulla vicina spiaggia di Torvaianica e lì abbandonata, per evitare lo scandalo.

Com’è prevedibile, Silvano Muto viene immediatamente denunciato per “diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico”. Il giornalista si affretta a ritrattare, ammettendo che il suo articolo non si fonda su dati acquisiti da fonti certe ed è, piuttosto, un parto della sua immaginazione.

Il 28 gennaio 1954 inizia dunque il processo a carico del giornalista. In aula l’imputato ritratta nuovamente: conferma quanto scritto nell’articolo incriminato, indicando la fonte che lo avrebbe ispirato. È una ragazza della provincia di Avellino, Adriana Concetta Bisaccia, fuggita dal paese natale per nascondere una gravidanza poi risolta con un aborto clandestino e giunta a Roma con l’aspirazione di entrare nel mondo del cinema. Velleità, questa, che riesce a soddisfare solo in piccola parte, mentre si mantiene come correttrice di bozze: fino a quel momento, ha ottenuto ruoli di comparsa in qualche film (tra cui, La presidentessa, diretto da Pietro Germi nel 1952, con Silvana Pampanini e I tre ladri, di Lionello De Felice, con Totò e Gino Bramieri, del 1954). Per la verità, le sue dichiarazioni sul caso Montesi non si rivelano propriamente utili a sostenere la tesi del giornalista: la giovane riafferma la propria assoluta estraneità alle presunte orge che si consumerebbero nella tenuta del marchese, accusando Muto di voler fare, a sue spese, “l’eroe nazionale”.

Ben presto, però, un nuovo colpo di scena scuote il processo. Si tratta di un’altra testimone che, a differenza della prima, condizionerà notevolmente le indagini sul caso Montesi. Si chiama Anna Maria Moneta Caglio e la sua vicenda inizia a Milano: da qui era partita con lettere di presentazione scritte dal padre, notaio e segretario di una sezione della Democrazia Cristiana del capoluogo lombardo. La ragazza, che aspirava a sua volta a diventare attrice, giunge a Roma con quelle due lettere indirizzate a due importanti esponenti del partito.

A Roma, la venticinquenne milanese conosce il marchese Ugo Montagna, siciliano trapiantato nella Capitale, amico di politici e frequentatore di ambienti mondani, come si addice a un uomo del suo rango. Ha il doppio dei suoi anni e tra i due nasce una relazione destinata a non durare.

Nel corso del processo Muto, viene riferito che la donna, dopo aver letto l’articolo pubblicato su Attualità, avrebbe posto in correlazione frammenti e indizi, frasi e telefonate del marchese Montagna, fino a convincersi che il suo ex fidanzato fosse coinvolto nella morte della Montesi. Wilma, secondo la Caglio, avrebbe quindi accusato un malore per abuso di stupefacenti appunto durante un’orgia nella tenuta di Ugo Montagna a Capocotta. Uno dei partecipanti al trattenimento, nonché amico del marchese, sarebbe stato Piero Piccioni. E proprio lui, secondo la Caglio, avrebbe condotto, con l’aiuto dei guardiani della tenuta, la Montesi sulla spiaggia di Torvaianica, lì abbandonandola ancora in vita.

Secondo la donna, inoltre, Montagna e Piccioni sarebbero amici del capo della polizia, Tommaso Pavone, e proprio a questi si sarebbero rivolti per occultare – con il diretto interessamento del questore di Roma, Saverio Polito – le prove del delitto.

Nelle more del processo Muto, il procuratore capo della Repubblica, Angelo Sigurani, riapre il caso Montesi: la nuova indagine dura trentacinque giorni e si conclude confermando gli esiti della prima: morte accidentale.

Nel frattempo, la Caglio si premura di rievocare, in un memoriale, le pruriginose vicende legate alla sua relazione con Montagna e le circostanze in cui la Montesi avrebbe trovato la morte. Tale memoriale, tramite uno zio prete della stessa Caglio che lo invia a un gesuita ben introdotto negli ambienti del potere, perviene al ministro degli Interni, Amintore Fanfani, che subito incarica il colonnello dei Carabinieri Umberto Pompei di effettuare ulteriori indagini sulla morte di Wilma. Anche stavolta non si giunge a conclusioni diverse dalle precedenti. Pompei appura, però, che Montagna, tra i risalenti e molteplici traffici nei quali è coinvolto, sarebbe “uso dare convegno a donne di dubbia moralità allo scopo di soddisfare i piaceri ed i vizi di tante personalità del mondo politico.”

13 marzo 1954: si dimette il ministro Attilio Piccioni. Scrive La Stampa: “Temeva che le voci sul figlio potessero diminuire la fiducia del Paese al governo.” Le dimissioni, su pressione del presidente del consiglio in carica, Mario Scelba, rientrano ma appare chiaro che la carriera politica di Piccioni è ormai irrimediabilmente compromessa.

Prosegue il processo Muto. All’udienza del 20 marzo 1954, viene letto in aula il “testamento” della Caglio. Con vistosi accenti da romanzo d’appendice, la stessa aveva scritto: “Ho paura di sparire senza lasciare tracce di me stessa. Purtroppo ho saputo che il capo della banda di traffico degli stupefacenti è Ugo Montagna, con annessa scomparsa di molte donne. Egli è il cervello di questa organizzazione, mentre Piero Piccioni è l’assassino.” I giornali della sera non mancano di semplificare il tutto con brutale immediatezza: “Piccioni è l’assassino di Wilma.”

Sospeso il processo Muto, nuova riapertura del caso Montesi e nuovo giudice istruttore: il consigliere di Cassazione, presidente della Sezione istruttoria della Corte d’Appello, dott. Raffaele Sepe. Questi dispone immediatamente la perquisizione della casa di Muto e l’arresto di Adriana Bisaccia, che nel frattempo si è a sua volta lasciata andare a una serie di dichiarazioni inattendibili e diffamatorie, in vario modo correlate al caso. Il magistrato ordina, inoltre, una nuova serie di perizie. Dalla relazione dei tre esperti incaricati: “In definitiva, il cadavere non presenta alcuna lesione di origine vitale. Risulta, altresì che l’imene, di forma anulare, era del tutto integro e così pure la regione anale.” Il decesso è avvenuto ventiquattro ore dopo la scomparsa di Wilma da casa; la sabbia trovatale addosso non è quella ferrosa di Ostia, ma quella silicea di Torvaianica; le correnti non potevano trasportarla di tanti chilometri, né svestirla. Sepe non sembra avere dubbi: si tratta di annegamento, provocato da colui che, impaurito dal trovarsela accanto inanimata, l’ha abbandonata ancora viva nell’acqua.

Il 21 settembre 1954, Piero Piccioni viene arrestato con l’accusa di omicidio colposo. Lo stesso giorno si costituisce il marchese Montagna, accusato di favoreggiamento. Il 30 settembre si profila però un differente scenario investigativo. In un articolo pubblicato su Il Messaggero, si allude alla possibilità che la morte di Wilma possa in qualche modo ricondursi al giovane zio della giovane, Giuseppe Montesi. Questi risulterebbe essere molto affezionato alla ragazza, se non addirittura invaghito di lei. In più occasioni, l’avrebbe persino sollecitata a rompere il fidanzamento con Angelo Giuliani. Giuseppe era, inoltre, solito vantarsi delle sue numerose avventure galanti e sembra che intrattenesse rapporti con soggetti di dubbia reputazione. Possedeva un’auto e ciò gli avrebbe consentito di condurre Wilma sul luogo del ritrovamento. La questura di Roma si dedica, quindi, a verificare tale scenario. Lo scopo in tal modo perseguito, ricorda Grignetti (2006), è evidente: la necessità di “cercare prove secondo le quali l’autore della morte della ragazza non poteva essere il figlio del ministro […]”[2]. Il comportamento di Giuseppe Montesi, sfuggente ed evasivo, certo non contribuisce a stornare i sospetti da lui: inizialmente si rifiuta di riferire agli inquirenti dove si trovasse la notte dell’omicidio. In seguito, finirà con l’ammettere che era in compagnia della sorella della sua fidanzata, da cui, in seguito, avrà due figli.

Per quanto riguarda l’indagine su Piccioni ed i suoi asseriti complici, il musicista risulta infine disporre di un alibi: ha trascorso i giorni precedenti la morte di Wilma a Ravello, in compagnia dell’attrice Alida Valli. Il 9 aprile era tornato a Roma, giungendo a casa verso le 14,30; i suoi, compreso il padre, erano ancora a tavola. Aveva un forte mal di gola e, alle 18, il prof. Silipo lo ha visitato nel proprio studio, diagnosticandogli un ascesso peritonsillare e consigliandogli di mettersi subito a letto. Così il giovane aveva fatto: poteva confermarlo l’infermiere che alle 21 gli aveva praticato un’iniezione. L’indomani non si era alzato, un medico e molti amici avrebbero potuto confermarlo.

Dopo cinquantanove giorni di carcere, Piccioni e Montagna ottengono la libertà provvisoria. Al termine dell’istruttoria, Sepe chiede il rinvio a giudizio per Piccioni (omicidio colposo), Montagna (concorso in omicidio colposo), Polito (favoreggiamento), per altre quattordici persone (spaccio di stupefacenti), nonché per Adriana Bisaccia (calunnia).

Inizia il processo. Con pronuncia del 15 dicembre 1955, la Corte di Cassazione dispone che il questo prosegua a Venezia e non a Roma, dove non sarebbe garantita la necessaria imparzialità. L’impianto accusatorio non si rivela solido. Fra le testimonianze meno convincenti, quella di due signore che in principio avevano asserito di aver visto il Piccioni e la Montesi sul lungomare: in realtà, avevano sì visto due giovani bruni ma, in aula, non sono in grado di identificarli come la vittima e l’imputato.

L’alibi del giovane musicista viene confermato e anche Montagna e Polito risultano essere estranei ai fatti. Piccioni e gli altri imputati vengono quindi assolti con formula piena il 21 maggio 1957. Condannata Adriana Bisaccia, a dieci mesi di reclusione con la condizionale. Nel giugno 1967, Silvano Muto e Anna Maria Moneta Caglio verranno riconosciuti colpevoli di calunnia nei confronti di Piccioni, Montagna e Polito e condannati in via definitiva, rispettivamente a due anni e due anni e quattro mesi di reclusione.

La vicenda si è, com’è noto, profondamente radicata nell’immaginario collettivo dell’Italia dell’epoca. Non mancano, anche a distanza di tanto tempo, contributi che la ripercorrono, ponendo puntualmente in evidenza dubbi e interrogativi che sembrano permanere sulla morte – e sulla vita – di Wilma Montesi e che rendono il caso assai adatto ad analisi socio-criminologiche retrospettive. Tra l’altro:

  • il rapporto tra Wilma e il fidanzato Angelo Giuliani era tutt’altro che sereno e idilliaco, come pure si è più volte ribadito. Dichiarazione di Wanda Montesi, sorella della giovane morta: “Wilma voleva bene ad Angelo, ma penso che non provasse per lui attrazione fisica. Lo teneva a distanza e, prima di ogni sua visita da noi, si caricava le labbra di rossetto: cercava una scusa per non baciarlo nemmeno su una guancia”[3]. Dichiarazione di Maria Petti, madre di Wilma: “Una volta, Angelo e Wilma uscirono da soli per andare al cinema. Tornarono in ritardo, seri e confusi. […] Quando Angelo fu uscito, Wilma – che non mi nascondeva mai niente – mi raccontò che non erano andati al cinema ma a Villa Borghese. Si erano seduti su una panchina e lui aveva tentato di ‘allungare le mani’, ma Wilma lo aveva subito respinto: fino alle nozze, niente confidenze”[4];
  • dopo la morte della ragazza, emerge che, all’insaputa dei genitori, coi quali pareva invece solita confidarsi, la giovane aveva ordinato un tailleur da 60.000 lire (cifra allora decisamente ragguardevole) a una nota sartoria romana, circostanza insolita attese le dimesse condizioni economiche della sua famiglia;
  • si è del tutto trascurato, senza verificarne l’eventuale attendibilità, il messaggio anonimo ricevuto dai Montesi il giorno del funerale di Wilma, in cui si sosteneva che la ragazza fosse stata uccisa da uno spasimante;
  • secondo alcuni esperti, sarebbe da escludersi la possibilità che il corpo della ragazza possa essere stato trasportato dalle correnti marine da Ostia a Torvaianica: in quel tratto di mare, tali correnti sarebbero andate, secondo loro, nella direzione opposta.
  • sul volto della giovane donna sarebbero state riscontrate delle macchie: sembra che i medici legali non siano giunti a una conclusione univoca circa la loro origine, non acclarando in modo definitivo se esse effettivamente derivassero dalla lunga permanenza del corpo in acqua;
  • gli stessi medici legali, in sede di autopsia, non avrebbero effettuato gli esami del sangue della donna, limitandosi a constatare assenza di sostanze stupefacenti nello stomaco;
  • l’assenza del reggicalze non risulta in alcun modo congruente con l’ipotesi del pediluvio;
  • un recente contributo dedicato alla vicenda (Ragone, 2015), che recupera materiale relativo al caso mai prima reso pubblico, giunge alla conclusione che la morte di Wilma sia da ricondurre a una vicenda privata, a una persona di cui la giovane si fidava, del tutto estranea al contesto aristocratico chiamato in causa da Muto e dal suo giornale. Scenario che prende le mosse dalle considerazioni di Montanelli e Cervi (1987), secondo cui appare decisamente improbabile che la giovane si fosse recata a un appuntamento del tipo ipotizzato indossando, come si sarebbe appurato, indumenti intimi rammendati e strappati.

In ogni caso, la singolare vicenda, giudiziaria e mediatica, sviluppatasi a ridosso della morte di Wilma Montesi, sembrerebbe rivelare alcuni tratti paradigmatici di un approccio all’indagine criminale, così come rappresentata e percepita a livello sociale, non di rado riscontrabile nel nostro Paese. La ricerca della verità – immancabilmente ardua – viene infatti spesso resa ulteriormente problematica dal profilarsi di ricorrenti e ingombranti scenari, che affondano le loro radici in un consolidato assetto culturale nel quale trovano posto, oltre agli esiti dell’investigazione in sé, pregiudizi, stereotipi, luoghi comuni. Scenari che, in modo puntuale e immancabile, evocano loschi affari e interazioni sessuali orientate verso l’eccesso e la perversione, possibilmente collocati in ambienti decadenti e corrotti (con eventuali, più o meno soffuse, suggestioni esoteriche), in cui si aggirano nobili, politici, esponenti del mondo dello spettacolo, faccendieri e, in genere, soggetti ambigui e poco raccomandabili. L’italico milieu che, pertinente o meno, torna comunque a dispiegarsi, nel suo sontuoso squallore, in molti casi di cronaca in cui si adombra l’eventualità del delitto, grazie a una sollecita vox populi, elevata ad assoluto e inattaccabile criterio di conoscenza.

La vicenda si rivelerebbe significativa, secondo Enzensberger (1998), proprio perché idonea a disvelare la “via italiana” all’investigazione: “Il procedimento razionale del lavoro del detective”, scrive il poeta e critico tedesco “non ha in Italia alcuna funzione decisiva: non è Sherlock Holmes che domina la situazione ma la Fama. Un assioma della criminologia italiana è che là dove c’è stato un delitto ci saranno prima o poi delle chiacchiere; la polizia condivide questa opinione con il popolo, che essa serve e da cui essa proviene: qualcuno parlerà […]. Appena la diceria giunge all’orecchio della polizia, diventa una ‘informazione ufficiosa’, si afferma e si consolida, assume consistenza. Diventa così un dossier. Nel dossier va a finire tutto ciò che è penetrato, impalpabile, attraverso i muri, tutto ciò che ha soffiato nelle orecchie.”[5]

Parole severe, che palesano una non condivisibile attitudine alla generalizzazione, evidentemente inidonea a dar conto dell’impegno e delle capacità degli investigatori del nostro Paese, ma che si rivelano – in certa misura – efficaci nel rimarcare come la razionalità e il rigore investigativo rischino di venire ostacolati dal pregiudizio e dall’ansia di giustizia sommaria diffusi nel pubblico. In Italia come nel resto del mondo.

 

 

Riferimenti bibliografici

Accorsi A., Centini M., I grandi delitti italiani risolti o irrisolti, Newton Compton, Roma, 2013.

Armati C., Selvetella Y., Roma criminale, Newton Compton, Roma, 2005.

Castellani L., GialloStoria. Enigmi, intrighi e delitti del ‘900, Olimpia, Firenze, 2007.

Grignetti F., Il caso Montesi, Marsilio, Padova, 2006.

Gundle S., Dolce vita, Rizzoli, Milano, 2012.

Montanelli I., Cervi M., L’Italia del miracolo, Rizzoli, Milano, 1987.

Ragone P., La verginità e il potere. Il caso Wilma Montesi e le ultime indagini, Edizioni, Roma, 2015.

Stafferoni L., I cinquanta delitti che hanno cambiato l’Italia, Newton Compton, Roma, 2016.

Zatterin U., “La tragica ballata di Piero Morgan”, in L’Europeo, 44, 1980.

 

Note
[1] Accorsi A., Centini M., I grandi delitti italiani risolti o irrisolti, Newton Compton, Roma, 2013, pp. 413-414.
[2] Grignetti F., Il caso Montesi, Marsilio, Padova, 2006, p. 216.
[3] Armati C., Selvetella Y., Roma criminale, Newton Compton, Roma, 2005, p. 146.
[4] Ibidem.
[5] Enzensberger H.M., Politica e crimine. Nove saggi, Bollati Boringhieri, Torino, 1998, in Armati C., Selvetella Y., op. cit., p. 156.

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